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La foto satellitare del tratto di mare chiamato "mare chiuso" ( a ridosso di Lefkada ).

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Cartolina di Natale 2018

Il viaggio è stato bellissimo ed il vento, mano a mano che aumentava, non faceva che aiutarci ad andare più veloci. Il moto ondoso creato dal vento, come lo stesso vento, erano entrambi a favore. Le cose sono cambiate una volta arrivati nei pressi della lingua di sabbia che occorre circumnavigare per entrare nella darsena antistante il ponte levatoio. Infatti, se esaminiamo la foto satellitare riportata qui sotto, si vedono bene i bassi fondali con acqua trasparente che si incontrano avvicinandosi a terra. Inoltre, nella foto è stata evidenziata, da una linea tratteggiata, la zona di bassi fondali non navigabile che si incontra verso costa entrando.

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Spiccare il volo verso la libertà e la conoscenza fa di ogni vita una vita degna d'essere vissuta.

Avventura col Prim Vent 21

Navigation

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Settimana di Pasqua 1973

 

Io e Margherita eravamo sposati da meno di un anno. All'epoca facevo il professore di matematica e fisica presso un liceo privato. Un mio allievo, che mi sentiva parlare ogni tanto della mia passione per la vela, mi disse che il padre di un suo carissimo amico aveva visto, su di una rivista, una piccola barca cabinata a vela ad un prezzo veramente stracciato. Gestiva un negozio di modellismo a Milano e coltivava il sogno segreto di possedere una piccola barca tutta per se. Fu un "colpo di testa". Senza dire niente, neanche alla moglie, decise di acquistarla immediatamente. La barca si trovava da circa un anno ormeggiata nel porticciolo di Campo Loro, in Corsica e bisognava pensare ad andarla a prendere… In qualche modo. Il "brav'uomo" naturalmente non aveva mai visto una barca a vela da vicino. Aveva esperienza di modellini… Come fare ? L'allievo mi chiese se fossi nelle condizioni di aiutarlo. Ne parlai con mia moglie… L'idea fu semplicemente quella di farci "la crociera di Pasqua 1973". Fu così che, durante il periodo di vacanze scolastiche (una settimana circa a cavallo della Pasqua), io, mia moglie, lo studente ed il suo amico partimmo per andare a prendere la barca. Missione: portarla fino al nuovo porto di Chiavari dove avremmo potuto lasciarla in affido ad una persona.

Foto dai nostri itinerari

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La foto ritrae una barca dello stesso modello del "Prim Vent 21"

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Grande eccitazione alla partenza: io ero il vecchio del gruppo, il comandante. Avevo ventiquattro anni… Appuntamento alla "nave" alle sei del mattino. La "nave" era appunto un modello di nave di oltre quattro metri di lunghezza che faceva bella mostra di se alla stazione centrale di Milano: un luogo di ritrovo scontato per i milanesi in partenza. Prendemmo il TEE - Trans Europe Express - un treno da "signori" che ci portò presto a Nizza. Poi in aereo fino a Bastia, in Corsica. Infine una trattativa sul posto ci permise di prendere un taxi a costo contenuto che ci lasciò al porticciolo di Campo Loro... Arrivammo ad aprire la barca intorno alle due e mezza del pomeriggio. Era una barca abbandonata in fretta. Quando entrammo vi erano resti di cibo negli armadietti, un bottiglione di vino pieno a metà e del vestiario. Non c'era tempo da perdere: esaminai il motore, un fuoribordo EVINRUDE 6CV che non volle avviarsi; armammo le vele e facemmo in fretta i controlli generali. Andai alla "Capitainerie" per prendere informazioni sulle condizioni meteo: si attendevano 25N di vento da maestrale; un Nord-Ovest fresco… Bene!... Avremmo fatto rotta sull'Elba con vento al traverso! Ordinata la coperta, tutto fu pronto: partimmo guadagnandoci l'uscita a vela bordeggiando tra i moli vuoti (ovviamente niente barche all'ormeggio durante l'inverno). Verso le 5 del pomeriggio eravamo già in rotta per l'isola d'Elba. Un vento al giardinetto ci spingeva dolcemente a cinque nodi verso la meta. Era quasi l'imbrunire quando finii di fare i controlli sui calcoli di navigazione. La prima tappa, la prima meta era stata fissata: lasciata Pianosa a destra, saremmo sbarcati a Marciana Marina, il primo porticciolo che avremmo incontrato lungo la costa Nord dell'isola. A bordo regnava l'allegria. Ognuno curiosava da qualche parte e, quando trovava qualche cosa di interessante, le novtà venivano condivise con gli altri e commentate. Ad un certo punto, venne fuori un diario di bordo: cominciò allora la lettura ad alta voce. Era scritto a quattro mani. Si perché la barca era partita per la crociera estiva con due medici a bordo.... scapoli… che avevano invitato due infermiere. Il brogliaccio partiva bene: data, luogo di imbarco, cambusa, ruoli assegnati all'equipaggio, etc…

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Già un pò più avanti le cose cominciavano a cambiare: i medici assumevano ruoli da marinaio, le infermiere soprattutto i turni in cucina (senza un ruolo nella conduzione/gestione dell'imbarcazione). Ad un certo punto, il diario riportava dell'insuccesso in cucina nel preparare un pesce. Seguivano poi le disposizioni del comandante che fissava le "pene" alle quali sarebbe stata sottoposta la cuoca in caso di ulteriore insuccesso. Veniva in seguito ordinato che entrambe le cuoche collaborassero insieme alla preparazione dei pasti. Una giuria "imparziale" composta dai componenti maschi dell'equipaggio, avrebbe giudicato il risultato. In caso di bocciatura, venivano quindi fissati vari livelli di colpa; ad ogni livello corrispondeva una punizione che le "povere infermiere" avrebbero dovuto subire insieme: si trattava di "severe" punizioni corporali. Non essendoci a bordo altro equipaggio, le punizioni sarebbero state impartite direttamente dal comandante e dal suo vice.

Continuando nella lettura, arrivammo presto a scoprire che le "poverette" sbagliarono spesso ed altrettanto spesso vennero punite. Fu avvincente la descrizione dettaglia di quel che successe.

Ad un certo punto, il brogliaccio riportava della partenza dall'isola d'Elba con destinazione Macinaggio. C'erano appunti, calcoli di rotta, la lista della cambusa e altro che non ricordo. Poi si menzionava il vento che, girato a Maestrale, rinfrescava in modo preoccupante.

Poi si parlava di una vela stracciata, del mare che montava a bordo e dell'impossibilità di fare rotta per Macinaggio. Poi più nulla. Il resoconto si interropeva così. Non ci volle molto per capire cosa era successo. La conoscenza di quel tratto di mare con Capo Corso e la sua influenza nel rendere feroce un vento che altrimenti sarebbe solo forte, l'impossibilità di andare avanti sulla rotta prestabilita, la paura di tornare indietro con quel tempo dovendo percorrere una lunga rotta esposti alla furia degli elementi mentre la costa sopravvento appariva così vicina: fu il panico. Questo spiegava perché la barca sembrava abbandonata in quel modo: cibo consumato a metà, mezza bottiglia di vino, scatole di vario genere ancora in cambusa, molte bottiglie aperte di liquore... Ed infine… La barca venduta in quel modo.

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Nel frattempo s'era fatta notte. Il mare era buono ed il vento di Sud-Est spingeva la barca anche a più dei cinque nodi della partenza. Tutti fummo affascinati da un fenomeno mai visto prima da nessuno a bordo: la carena tracciava sull'acqua una scia fosforescente lunga almeno quanto la barca stessa, era il plancton che, in quella stagione, emetteva una vivida luce reagendo ai vortici dovuti al passaggio della chiglia... Sembrava d'esser in viaggio su una stella cometa. c'era un assoluto silenzio a bordo a sottolineare quanto subissimo il fascino del momento. Miliardi di stelle sopra di noi facevano a gara per brillare di più... La luna appariva appena sotto l'orizzonte.

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Gli interni del "Prim Vent 21" (foto di una barca simile)

Poi ci mettemmo perfino a cantare. Non so quanto tempo passò prima che il momento magico finisse. La vena poetica dovette cedere ai morsi della fame. Ci ritirammo tutti in cabina e tirammo fuori le nostre provviste. Ben coperti ed al caldo relativo dell'ambiente protetto, dividemmo tutto offrendoci l'un l'altro quel che avevamo portato. Finita la cena, andai in pozzetto per il solito giro di orizzonte: "Faro in vista". Mi affrettai allora a prendere il cronometro per rilevarne i tempi. Tornai in cabina e ripresi le carte. Tutto andava bene. Il faro era quello dell'isola di Pianosa. La navigazione stimata ci poneva a circa diciotto miglia dal faro e proprio diciotto miglia era la distanza alla quale i documenti indicavano che avremmo potuto vedere il faro. Era un'evidente approssimazione, ma in un contesto di quel genere ero soddisfatto: sapevo dov'eravamo. Ma mi attardai ugualmente a studiare le carte ancora una volta. Ero preso, assorto nei miei pensieri: cercavo di memorizzare il più possibile le informazioni che il portolano ci offriva con le sue descrizioni delle coste dell'isola d'Elba. Ad un certo punto, il mio alunno e Margherita mi chiamarono in pozzetto: "ci sono dei fulmini all'orizzonte… Là verso Nord". Un brivido mi corse lungo la schiena: erano previsti venticinque nodi di vento… Ma i fulmini sono un'altra cosa. Cercai di nascondere agli altri quel che pensavo:"ragazzi, siamo in mare e non ci sono ostacoli; quel che accade a centinaia di chilometri da noi lo vediamo come fosse a pochi passi: non c'è da preoccuparsi"… Ma ero preoccupato.

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Cominciai a scrutare la superficie del mare, il cielo… Mi guardavo intorno per scorgere qualsiasi segno di cambiamento che non fossero quei maledetti fulmini: niente. Tutto continuava come prima: venticello da Sud-Est al lasco con mura a dritta… E la barca che filava più di cinque nodi. Ma non restò a lungo tutto così. Ad un certo punto un impercettibile mare lungo da Nord-Ovest cominciò ad alterare lo scenario che avevo imparato a conoscere. E quì feci il primo di una serie di errori che infilai uno dopo l'altro in quella notte di mare: non ridussi immediatamente le vele. Ci fu un momento, qualche secondo, durante il quale il vento cadde del tutto. Poi un colpo di indicibile violenza fece esplodere il genoa e spezzò di netto il grillo che ammanigliava la scotta al trasto di randa. Perdemmo in mare buona parte del genoa ed i ragazzi andarono ad ammainare il resto. Durante l'operazione sfuggì di mano la drizza di fiocco cui era rimasta attaccata la tavoletta e poco di più. Non c'era verso di recuperarla: quando si ammainava, la parte a riva filava fuori bordo sbattendo al vento e facendo vibrare l'albero a tal punto che rinunciammo per evitare altre avarie. La randa invece era rimasta illesa: il grillo cedendo aveva lasciato che la vela si aprisse al vento. Dava impressionanti colpi a destra e a manca, ma era intera. Ordinai che tutti rientrassero in pozzetto. Misi dei vecchi guanti da sci che avevo portato nel caso vi fosse più freddo del previsto, agguantai la scotta che pendeva libera sotto il boma e misi in forza la randa. La barca assunse un assetto controllato; il caos che aveva regnato per qualche interminabile minuto cessò di colpo… Eravamo di nuovo in navigazione.

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Naturalmente il mare non si fece attendere. Le onde ormai arrivavano ben formate ed aggressive. Io mi resi conto assai presto che la barca non avrebbe fatto un metro senza danno nel caso che avessi abbandonato il timone. Uno dei ragazzi era scivolato in cabina e si era sdraiato sul nudo pagliolo. L'altro restava seduto al mio fianco inebetito: non si muoveva, non parlava, non dava apparenti segni di vita. Mia moglie restava in piedi affacciata al tambucio. Io navigavo a vista. La luna splendeva ormai in cielo e la superficie del mare si vedeva chiaramente. Le onde si susseguivano in treni interminabili di minacce che assalivano la barca al traverso. Il faro dell'isola di Pianosa rimaneva però in vista. Ci fu di grande aiuto quel faro: io non potevo lasciare il timone, ogni luce a bordo era spenta e fare carteggio era fuori discussione. Il ragazzo che fino a quel momento aveva resistito inerme seduto in pozzetto, mi chiese di poter entrare sottocoperta. Io avevo sperato che, dopo un primo momento di "sbandamento", almeno uno di loro si sarebbe ripreso. Il livello di sicurezza a bordo avrebbe molto beneficiato di un secondo capace di operare. Acconsentii con l'accordo che, appena si fosse ripreso, sarebbe ritornato al suo posto. Nessuno dei due ritornò operativo. In quelle condizioni, decisi di navigare in direzione del faro, unico punto di riferimento certo nella notte.

Avevo accumulato una grande esperienza col dinghy. Avevo imparato come prendere le onde con una deriva che non tollerava di imbarcare acqua. In caso avessi sbagliato a prendere un onda, l'acqua montata in barca avrebbe appesantito il dinghy col risultato di abbassare il bordo libero e di rendere sempre maggiore la probabilità di imbarcare altra acqua.

Ormai il mare aveva assunto un comportamento cattivo: per rendere inoffensiva l'onda dovevo fare un gioco che é possibile fare solo su barche piccole e leggere… Un gioco da "derive". Con l'arrivo dell'onda al traverso, puntavo decisamente all'orza, contro l'onda. La barca saliva fin quasi sulla cresta aggressiva. Quì, poco prima che l'acqua proiettata in avanti colpisse lo scafo al mascone, con un colpo deciso di barra alla puggia, riducevo l'impatto assecondando l'onda. Poi il gioco ricominciava... Onda dopo onda… Minuto dopo minuto… Ora dopo ora... 

Quando la barca cavalcava la cresta dell'onda, il "polverino d'acqua" di mare sollevato dal vento mi frustava gli occhi. Quando la barca ricadeva sul cavo dell'onda, Margherita mi tamponava gli occhi con un asciugamano. Lasciare la barra, anche per un attimo, sarebbe stata follia. Avevo bisogno di tutta la mia capacità per mantere l'imbarcazione viva e reattiva in modo che potesse farsi largo tra i marosi evitando i colpi di mare e l'impatto con le creste. Al passaggio di un'onda più nervosa delle altre, un colpo sordo proveniente da prua mi mise in allarme. Non vi era stato, fino a quel momento, alcun rumore anomalo a bordo. Non volevo allarmare mia moglie più di quanto non lo fosse già. Nell'esercito si sarebbe detto che "eravamo già in forza minima... Con metà degli effettivi in branda". Margherita era operativa ed importante. Le dissi con apparente non curanza:"che strano rumore; si sarà spostata qualcosa sottocoperta... a prua. Se ti va, vai a dare un'occhiata per vedere cosa succede". Mi rispose: "No, non voglio andare sottocoperta; non me la sento". Non ne parlammo più. Non era proprio il caso di rompere quell'equilibrio precario, eppure importante, che si era stabilito a bordo: i "piccoli" dormivano, mia moglie aveva un lavoro da fare ed era concentrata a farlo bene… E anch'io avevo il mio "da fare". I colpi però si susseguivano uno dopo l'altro… Ad ogni onda: un colpo sordo, netto, sullo scafo a prua. Il mio cervello cercava di usare tutti i mezzi a disposizione per capire cosa potesse produrre quel rumore. Ad ogni onda il suono veniva analizzato, si metteva il tonfo in relazione al momento in cui si sentiva, la fantasia correva a creare scenari plausibili. L'impossibilità di andare a vedere aveva generato in me un certa ansia di fondo. Poi, in un attimo, vidi chiaramente nella mia mente cosa stesse accadendo: "nel gavone di prua, la pesante ancora che avevo visto prima di partire quando esaminavo la barca, veniva lanciata in alto da ogni onda che ci proiettava verso il cielo imponendoci balzi di più di due metri. Quando la barca ricadendo picchiava sull'onda, il pesante ferro cadeva sullo scafo; uno scafo di sottile vetroresina… Sempre sullo stesso punto…"

Un brivido gelato mi corse per la schiena:" quanto tempo potrà reggere lo scafo " - pensai - " prima di cedere?" In un attimo capii quanto fossi stato stupido, superficiale, presuntuoso. Cosa ci facevo lì? Cosa mi aveva indotto a partire per un'impresa più grande di me? - Mi sentivo anche colpevole. Avevo trascinato con me mia moglie e due ragazzi che ora attanagliati dal terrore e dal mal di mare erano inerti sottocoperta incapaci di muoversi e di reagire… Che stupido ! 

Decisi allora di chiedere a Margherita di "svegliare", anche rudemente se necessario, uno dei ragazzi, quello a lei più vicino: "che andasse a vedere quale fosse il problema e vi ponesse rimedio". Lei capì al volo quello che intendevo. In quella barca moto piccola, il ragazzo disteso bocconi sul pagliolo aveva i piedi praticamente tra i suoi. Prima un ordine deciso, poi urlato… Infine qualche calcio… Ma a nulla valse tutto ciò. Ormai si erano lasciati andare entrambi. Una rabbia sorda mi assalì. Come può un ragazzo di diciotto anni soccombere in questo modo alla paura. Com'é possibile che si rinunci a lottare per la propria vita? Pensai che solo qualche generazione prima, a quell'età, i giovani dovevano affrontare una guerra. Ma erano solo pensieri dettati dal momento. La realtà mi richiamò a fare quanto possibile; il resto erano solo chiacchere. Intanto il faro dell'isola di Pianosa non era più così lontano. I colpi a prua continuavano ma la barca resisteva. La luna era ormai alta nel cielo della notte. Pensai quanto fosse bella e indifferente lassù mentre giù c'era l'inferno. La barca filava veloce in quel caos d'acqua... E questo era bene !

 

Fine

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Mi accorsi incredulo che saltuariamente, un po' a sinistra a prua, appariva una luce rossa tra i marosi. Appariva ogni tanto, quando entrambi ci trovavamo allo stesso tempo sulla cresta dell'onda. Ma ormai ne ero certo: una grossa imbarcazione si faceva strada in quel mare facendo la nostra stessa rotta in senso opposto: non eravamo più soli quella notte. I colpi a prora, i ragazzi in quello stato, il senso di colpa che mi attanagliava, l'impossibilità di far fronte a qualsivoglia imprevisto che aggiungesse problemi ad una situazione già al suo limite... Tutto mi convinse che vi era una sola cosa da fare: chiedere aiuto.

Subito dissi: "Daisy, passami la torcia nella sacca proprio a fianco alla tua testa; presto! " Tre punti, tre linee, tre punti… E la luce della torcia indirizzata verso quella grande imbarcazione ancora così lontana segnalavano la nostra richiesta di aiuto. Il segnale di SOS, ripetuto ogni cinque minuti in quella direzione nella speranza che ci scorgessero assorbì tutta la mia attenzione mentre, ormai automaticamente, conducevo la barca in quella danza per la vita. 

Correvamo veloci, come avevamo corso sempre da quando il vento furioso si era abbattuto su di noi. Ma quanto era lontana quella luce: sembrava che il tempo passasse senza che ci potessimo avvicinare. Non so quanto dovetti aspettare, attanagliato dalla tensione, per capire se stessero rispondendo al segnale facendo rotta verso di noi. Ormai intravedevo, dietro le luci di via, un grosso bastimento a vela che avanzava caracollando a secco di tela facendo uso del solo motore. Era enorme: probabilmente lungo una trentina di metri. Teneva una rotta parallela alla nostra venendoci incontro leggermente sopravvento. Cercai di immaginare quel che avremmo dovuto fare per abbandonare la barca. Il problema, già maledettamente serio in ogni caso, era aggravato dal fatto che i due ragazzi erano come morti: nessuna reazione. Lo scafo si muoveva in modo violento spostandosi ogni volta di alcuni metri. Non riuscivo ad immaginare nessuna possibilità di trasbordo che non passasse forzatamente per un bagno in acqua di notte nel periodo di Pasqua. Anche se la salvezza appariva ormai vicina, non eravamo certo salvi: quel trasbordo avrebbe potuto significare una tragedia.

Tutto successe all'improvviso e così rapidamente da sorprendere tutti. La nave, che ormai era ormai vicina sopravvento, virò mettendo la prua verso di noi. Quel lento avvicinarsi nella notte di una fioca luce di via che sembrava non raggiungerci mai, si trasformò in un attimo in un enorme bastimento che cavalcando l'onda ci mostrò, sopra di noi, la carena bagnata luccicante al chiarore della luna mentre ci piombava addosso dall'alto della cresta di un onda che avanzava incurante del disastro incombente.

Non so cosa pensai, forse non ebbi proprio il tempo di pensare. L'istinto, l'abitudine all'andare per mare sotto vela e con piccole barche... Non saprei… So però che mollai la barra e, con entrambe le mani, alai sulla scotta di randa con tutta la forza della mia disperazione. Notai con stupore che la forza del vento era tale che la randa, praticamente, rimase comunque parzialmente sventata.

Tuttavia lo sforzo non fu inutile: lo sbandamento aumentò di colpo come aumentò la velocità e l'impressione fu che il "Prim Vent" sgusciasse fuori da quella pericolosa posizione con un guizzo. L'enorme prora dell'immenso barcone cadde pesantemente nel cavo d'onda e una montagna d'acqua si abbatté su di noi. Ho ancora negli occhi l'uomo sgomento che, vestito di un sud-ovest giallo, ci guardava dalla porta laterale di plancia aperta a mezza nave. Fu un attimo interminabile... Un istante dopo la nave era lontana nella tempesta. E questo fu l'epilogo del secondo imperdonabile errore di quella notte: abbandonare la barca sarebbe stato il modo più stupido e certo perché qualcuno perdesse la vita.

E' strano, ma ritrovarmi da solo in mare con l'unico possibile "soccorritore" che scadeva velocemente di poppa non mi dispiacque. Mi fu subito chiaro che pensare ad un salvataggio in quelle condizioni avrebbe avuto senso solo se organizzato da veri professionisti attrezzati. In caso contrario sarebbe stato come "cadere dalla padella nella brace". Apprezzai il fatto che, seppure in condizioni limite, la nostra barca viaggiava bene da molte ore, teneva la rotta, non c'erano feriti a bordo…  Insomma, se non fosse per quel maledetto colpo a prua che non mancava di crearci angoscia ad ogni onda, in fondo non ci sarebbe stato da drammatizzare troppo quel brutto momento. Così ripresi a navigare con un certo sollievo: la sorte aveva evitato che mettessi in pratica una malsana idea che avevo accarezzato a lungo fino a pochi istanti prima. Questa ritrovata parziale fiducia fu presto notevolmente accresciuta da un'onda anomala che ci colpì violentemente al mascone buttando di forza la barca alla puggia di parecchi gradi. Sembrava un'onda isolata, non si vedevano reali segni di ulteriore peggioramento del mare. In compenso, non appena ebbi riportato la barca in assetto sulla sua rotta chiesi a Margherita di dare un occhiata all'interno con la torcia: "c'é lo stesso disastro di prima, tutto vola di quà e di là; c'é solo in più un bugliolo che prima non c'era, ma non da fastidio".  Strano, il rumore a prua non si sentiva più. Non volevo illudermi, rimanevo con l'orecchio teso ad ogni onda aspettando il perfido tonfo a prua… Niente! Passavano i minuti ma il rumore era cessato... Benedetto bugliolo !

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Nel frattempo l'isola di Pianosa cominciava a stagliarsi chiaramente nella notte illuminata da una luna che riempiva di luci ed ombre il nostro orizzonte. Era una visione che mi incuteva timore; inquietante a suo modo. E tuttavia potei apprezzare in seguito l'aspetto positivo di questo fatto. Il faro era ormai sparito dietro l'isola ormai vicina: se ne vedeva il fascio fendere ritmicamente la notte. Avevo considerato la possibilità di passare sottovento. Ma non avevo studiato abbastanza le carte e non ero certo in grado di farlo in quel momento. Decisi di passare sopravvento. Inoltre, la barca procedeva al traverso: si trattava di continuare sulla stessa rotta. Cominciai allora a timonare ancora con più attenzione: dovevo guadagrare al vento il più possibile. La barca sembrava molto manovriera: proprio la sua agilità fra le onde le consentiva di far fronte, seppur sempre al limite, a quella brutta situazione. 

Si navigava a vista e nella notte l'isola sembrava veramente vicina: troppo vicina. Si cominciarono a vedere le onde che frangevano potenti sulla scogliera di fronte a noi. Ebbi paura fino all'ultimo... Vedevo bene dove il moto ondoso spezzava la sua regolarità (rocce sommerse): dovevo stare lontano da quel punto. Trattenni il respiro per un lungo interminabile momento... Uff, era andata. I vortici e le colonne d'acqua delle onde incrociate erano ormai di poppa sottovento. Adesso la costa si allontanava dalla nostra rotta mano a mano che si avanzava. Il mare tornava ad essere più regolare ed io dovevo approfittarne per guadagnare al vento ogni centimetro utile.

Avevo passato la prima di due punte, col mare che mi spingeva in costa. Ma la barca navigava bene ed alimentava una certa fiducia. Nel golfo del Tigullio uscivo col Dinghy con ogni tempo. Certo, non avevo mai visto un mare simile, ma era normale col Dinghy passare a vista rasente agli scogli.

In barca la situazione si era ormai stabilizzata: i due ragazzi erano "finti morti" ormai da tempo, Margherita continuava incessantemente ad asciugarmi gli occhi, a passarmi un po' d'acqua ed a parlare di quel che accadeva senza angoscia.

Non ci mettemmo molto a raggiungere l'altra punta, quella a Nord dell'isola. Solo dopo aver scapolato quella propaggine che si allungava sul mare avremmo avuto acqua libera fino all'Elba. Avrei dovuto prestare la massima attenzione. Ricordavo che dalla punta si estendeva verso il mare un bassofondo ed uno scoglio affiorante molto pericoloso. Ma la luna, con i suoi giochi di luci e di ombre, mi dava una mano: avevo la certezza di vedere molto bene la superficie del mare fino ad una distanza ragionevole per poter giudicare in tempo. "Bene! - pensai - Ci siamo. Vedo chiaramente davanti a prora l'acqua perdere la sua regolarità. Devo riuscire a passare sopravvento a quel punto di una ventina di metri almeno". Ad ogni onda spingevo la barca a guadagnare al vento... ad ogni onda mi illudevo di risalire... Ad ogni onda mi accorgevo con stupore che mancava acqua sufficiente per passare. "Maledizione! - mi dissi - Non passiamo. Vira! " Lasciai che la barca gemesse sotto quel vento ululante per prendere la rincorsa: dovevo avere velocità per far passare la prua sull'onda che cercava di ributtarmi indietro. Ma la barca non mi tradì. Spezzava l'onda sulla cresta ed abbatteva sulle altre mura. "Adesso - pensai - devo fare un bordo per risalire al vento e poi virare per ritentare il passaggio".

Tre volte ci riprovai. Tre volte fui costretto a virare per tornare indietro. Tre volte la barca rispose all'appello. Ogni volta allungavo il  bordo, ogni volta cercavo di guadagnare il massimo. Finalmente riuscii a portarmi ad una distanza dagli scogli che ritenevo accettabile. Non avevo paura. La barca governava bene e non mi sentivo prigioniero di quell'ansa nella quale il mare cercava di cacciarmi. Se é vero che per tre volte non passai, é anche vero che tornare indietro si era sempre rivelato possibile: sapevo di poter uscire dalla stessa parte, dove ero entrato.

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Così, ad un certo punto sembrava proprio che ce la potessi fare... Lo stomaco stretto in gola, tutti i muscoli tesi, lo sguardo fisso sul punto dove l'acqua rompeva: portai la barca oltre la linea del"non ritorno.

Mi si gelò il sangue nel vedere che la distanza alla quale avevo creduto di passare, una ventina di metri dal gorgo, si era dimezzata in un attimo… C'era corrente ! Ricordo bene di me che fissavo il gorgo, a pochi metri ormai, che scadeva di lato… Ma passammo: pochi istanti dopo era tutto alle spalle. Avevamo acqua libera fino all'Elba.

Una immensa gratitudine mi riempì il cuore e, all'improvviso, la notte parve meno cupa. Nei momenti più neri, quando l'angoscia ed il senso di colpa per aver trascinato gli altri in questa notte di follia mi avevano spinto a pregare, avevo fatto la promessa: "se usciamo vivi da questa situazione, non andrò mai più per mare". Mi sembrò di non essere più solo contro gli elementi: "lassù qualcuno ci aiuta…" 

Questo fu il terzo drammatico mortale errore di quella notte: passare sopravvento ad una scogliera col mare in burrasca é una follia per qualsiasi marinaio. Ad ogni buon conto, ero passato. Si vedeva il faro che dall'isola d'Elba ci teneva ormai compagnia. Avevo riacquistato fiducia; troppa fiducia. Scambiavo più volentieri due parole con Margherita che instancabile continuava a sostenermi. Lei percepiva chiaramente, anche senza parlarne, che adesso consideravo il peggio alle spalle. La barca correva instancabile. Il vento ululava, le onde frangevano, il polverino d'acqua mi gonfiava gli occhi… Ma andava bene così! L'Elba era ancora distante, ma era di prora e senza ostacoli interposti. Fu in questo clima meno teso, con la sensazione di avere il peggio alle spalle, che mi accorsi con interesse che erano apparse in lontananza le luci del porticciolo dell'isola di Pianosa. Il porto sembrava essere lì, non troppo lontano: facile da raggiungere perché proprio sottovento. Il mare ed il vento ci avrebbero portato nel porto: avremmo avuto mare e vento alle spalle. Saremmo arrivati in porto in un attimo: fine del pericolo, fine dell'angoscia, del freddo, dell'umido, della stanchezza. "Bene! - pensai - E' deciso! Si vira." Il mare non era certo meno aggressivo di prima e sembrava infischiarsene del miglioramento del morale a bordo. Le onde rompevano minacciose ed il vento ululava. Non si poteva così, semplicemente, far rotta per il porticciolo di Pianosa sottovento a noi: saremmo semplicemente stati travolti in un attimo. Occorreva prima virare col mare in prora. Portare la barca in velocità in modo che avesse slancio sufficiente per spezzare la cresta dell'onda ed abbattere dall'altra parte. "Nessun problema a virare. - pensai - Lo abbiamo appena fatto un mucchio di volte per scapolare quegli scogli assassini alla punta Nord di Pianosa. Prendiamo la rincorsa… Basta non farsi impressionare quando, puggiando, esponiamo al vento tutta la tela… Certo vibra tutto in modo impressionante, sembra che il vento possa portarci via albero e vele insieme… Ma dura poco. Poi il porto lì, a portata di mano, riparato, rifugio rassicurante ci ripagherà di tutto." Mi preparai alla manovra con la massima concentrazione: era stato così fino a quel momento in tutte le virate che avevamo appena fatto.

Presi slancio, velocità… Virai con decisione e detti il colpo di barra esattamente al momento giusto. Ma l'onda, con un gran colpo in prua, montò a bordo e spazzò la coperta. La barca abbatté riportandosi sulle stesse mura perdendo completamente ogni controllo. "Maledizione! - mi dissi - Devo agire sulla vela con tutta la mia forza… Se la prossima onda mi coglie in questo stato inerte é la fine… Devo tornare manovriero immediatamente." - "Uff... Per fortuna l'onda successiva passò oltre senza danni… Bene!... Ma non benissimo, la barca accusò il colpo… Ma era passata.

"Ma dove ho sbagliato?"  - mi chiedevo - "Non capisco…" Tutto era andato esattamente come avrebbe dovuto. Ne avevamo appena fatte di virate con questo mare e questo vento. Decisi di riprovare. Avevo però qualche timore. Il colpo di mare che ci aveva impedito di virare ci aveva lasciato in una situazione di massimo rischio: per un attimo avevo avuto paura di non farcela… "Ma accidenti ! - mi dissi - Deve pur virare… Riproviamo! " Per tre volte tentammo quella notte. Per tre volte il mare ci respinse. Per tre volte ebbi paura che la barca inerte dopo l'urto con la cresta dell'onda fosse travolta dal mare. "Basta! - pensai - E' un segno del destino. Forse chiedo troppo… Abbiamo l'Elba di fronte a noi nella rotta migliore possibile in questa notte di burrasca. Certo é ancora lontana… Ma si tratta solo di resistere... Rassegnamoci. E' troppo rischioso tentare un'altra virata..." 

Questo fu il quarto dannato errore di quella notte. Se la barca avesse virato, io avrei fatto rotta per le luci del porticciolo bene in vista. La barca, come aveva fatto il bastimento al quale avevamo chiesto soccorso qualche ora prima, si sarebbe avventata a folle velocità verso quella scogliera sconosciuta in mezzo alla quale, tra bassifondi rocciosi, si stagliava il porto. Questa volta non avrei avuto il tempo di vedere, di capire, di decidere: il vento e il mare ci avrebbero spinto con violenza verso un tragico epilogo. Ma la cosa che ancora oggi mi lascia attonito… La cosa che non si riesce a capire con l'uso della sola ragione é questa: ho dovuto eseguire molte virate a pochi metri dal pericolo estremo nei vari tentativi di scapolare l'isola di Pianosa. Mi viene il freddo a pensare cosa sarebbe accaduto se una sola di quelle virate non fosse riuscita al primo colpo. Eppure il mare era lo stesso, il vento pure... Non voglio commentare oltre questo fatto: che ognuno ne tragga le conclusioni che crede… Per me comunque la vita dopo non é stata più la stessa… Ho imparato ad affrontare il mare con umiltà e sapendo bene che nessuna prudenza, nessuna tecnologia, nessuna nave ci garantisce la sicurezza totale… 

Ma, torniamo alla nostra storia! Continuammo a navigare per il resto della notte. Inizialmente puntando sul faro di Punta Polveraia all'Elba, poi, mano a mano che l'isola si faceva più vicina, facendo rotta per la costa Sud in modo da farci proteggere a ridosso della terra.

Navigammo così fino al sorgere del giorno che finalmente arrivò quando si incrociava davanti alla rada di Marina di Campo. Ormai eravamo completamente ridossati, il pericolo era cessato. Un punto di arrivo, la possibilità di sbarcare era adesso a portata di mano. Qui avvenne il miracolo: i due ragazzi, dati per "morti", ripresero conoscenza. Diedi ordine ad entrambi di darsi da fare col motore fuoribordo per vedere di farlo partire: avrebbe accorciato di molto i tempi per raggiungere la banchina che adesso si trovava controvento per noi. Dopo un po il motore partì.

Raggiungemmo l'ormeggio dove eravamo la sola barca con la banchina tutta per noi. Facemmo un ormeggio ridondante usando tutte le cime che trovammo a bordo... Una vera ragnatela ! Ci cercammo un albergo nel quale dormimmo per ventiquattr'ore fino alla mattina dopo. Alla reception ci dissero che quella notte si erano scoperchiate alcune case all'Elba a causa del vento: "siete stati proprio fortunati".

Quando, prima di ripartire, in qualità di skipper, mi recai in capitaneria con la licenza di navigazione, fui sorpreso nel sentirmi dire che avrei dovuto salire direttamente nell'ufficio del comandante perché voleva parlarmi direttamente. Mi chiese da dove venissi, quale fosse stata la rotta seguita e come era andata la traversata. Non feci mistero di nulla. Neanche degli errori commessi che, col senno di poi, cominciavano ad apparire chiari ai miei occhi.

"Comandante" mi disse , "lei si é assunto un rischio tremendo ed una grossa responsabilità. Con una donna e due ragazzi a bordo ha preso il mare con una barchetta non adatta certo alle condizioni che avete affrontato. Inoltre la barca non é abilitata per navigare a più di sei miglia dalla costa. Credo proprio che dovrei essere molto severo. Comunque lei é molto giovane, ha molto da impare ancora e, da quel che mi racconta, ha cominciato a capire qualcosa da questa esperienza. Stando alla legge, lei dovrebbe passare un sacco di guai. Se ne vada, porti con se i suoi documenti e, soprattutto, si affretti a rimuovere quella enorme ragnatela dal mio porto. E' meglio ch'io faccia finta di non vedere."

Così prendemmo il mare ancora una volta. Il tempo era ormai migliorato e detti l'ordine: "Molla a prua… Molla a poppa… " La barca era ancora ad un metro dalla banchina quando, alzando gli occhi, rividi proprio lì, sul molo, mentre ci accingevamo a salpare, il comandante della capitaneria in persona... Ci guardammo per un lungo interminabile momento… Poi lui disse rivolto a me: "Buon vento comandante e prudenza, mi raccomando, la massima prudenza."

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